IL PROCESSO
La mattina dopo con mia grande sorpresa venne a trovarmi Domenico. Domenico aveva ottenuto dall’I.O. un pass per potermi venire a trovare in qualsiasi momento nel mio resort di lusso.
Io passavo da momenti con l’animo molto fiero e battagliero (pochi) a momenti di sconforto e di stanchezza (molti). Tra l’altro non mi riusciva proprio di prendere sonno. Domenico dopo avermi dato l’ennesima iniezione di ottimismo e fiducia se ne andò ed io ottenni il permesso di telefonare al consolato italiano. Parlai con un giovane ed antipatico funzionario che, inaspettatamente, mi venne a trovare il pomeriggio. Era un tipo brillante, sulla trentina, dinamico, un pò stronzetto, destinato, lo si gli leggeva in viso, ad una luminosa carriera diplomatica. Chiesi se poteva indicarmi un avvocato o se il consolato mi poteva dare una mano d’aiuto. Mi rispose che se avevo 1000 – 1500 dollari canadesi mi potevo permettere un avvocato o sennò, il consolato non poteva fare nulla (sic!). Io avevo 500 dollari che dovevo consegnare a mio fratello.
La decisione fu presa senza tentennamenti.
E poi avevo già un’ottima difesa.
Domenico mi venne a trovare tre volte quel giorno, e l’ultima fu per informarmi che l’indomani alle 8 del mattino si sarebbe tenuto il processo.
Finalmente!
Avevo vissuto fino allora con la mente proiettata verso il giorno e l’ora del processo. Era il momento nel quale si sarebbe messa la parola fine alla mia stramba ma soprattutto incomprensibile avventura canadese. O si rimaneva in Canada o si ritornava in Italia. Mi ero preparato al processo sin dai primi momenti passati in cella. Avevo scritto bene la difesa. Era corretta, plausibile, vera.
Ero pronto.
La notte non presi sonno.
In siciliano c’è un’espressione per indicare come passai la notte: con gli “
occhi sbarrachiati”, cioè con gli occhi totalmente ed esageratamente aperti,
sbarrachiati per l’appunto.
Alle 7.30 in punto arrivò Domenico. Mi aveva già avvertito che sarebbe stato lui l’interprete del processo.
Mi ricordo perfettamente il momento in cui entrai nell’aula del tribunale, ma non ricordo affatto, anche sforzandomi, come ci arrivai.
Prendemmo un mezzo e ci trasferimmo in un altro edificio?
Oppure l’aula era già approntata nell’Hotel Supramonte?
Non riesco a ricordare nulla di quel trasferimento. Solo un impressione di cammino. Camminavo. Vedo le mie scarpe che andavano avanti.
Indelebile invece il momento in cui entrai nell’Aula.
C’era una pesante tenda rossa, doppia tenda che prima mi avvolse e poi mi fece sbucare nell’aula. Piccolissima, tutta e completamente circondata da questa pesante tenda rosso amaranto. Uno scranno dove c’era il Giudice, una sedia ed un tavolino per l’Imputato ed alla destra un posto dove si piazzò Domenico.
Per prima cosa il Giudice disse che qualsiasi comunicazione doveva passare attraverso Domenico, che era il traduttore ufficiale della seduta. Non c’erano altre persone.
Io mi sentivo bene. Adrenalina al massimo.
All’inizio spiegai che avevo scritto una difesa e che volevo leggerla. Il Giudice acconsentì. La mia traduzione era inutile e parlai in italiano. Ero tranquillo. Apparentemente.
Alla fine della mia difesa il Giudice mi rivolge, ovviamente in inglese, una domanda.
<<Lei ha scritto la sua difesa dopo che ha parlato con suo fratello al telefono? E’ stato Lui ad indicarle cosa scrivere nella difesa?>>
Io avevo capito tutto. Parola per parola, anche le parole di cui non conoscevo il significato. Non aspettai la traduzione di Domenico ma mi alzai di scatto e dissi col mio miglior inglese (non so come ma riuscivo pure a parlare in inglese velocemente) e con un tono di voce un poco al di sopra del normale, praticamente gridavo, che la difesa era frutto della mia personale esperienza e che non era necessario mio fratello per raccontare quella che era la verità!
Ero passato da un apparente tranquillità ad una rabbia nera ma più controllata di come appariva all’esterno. Ciò che mi aveva provocato lo scatto d'ira era l’insinuazione subdola e meschina che qualcuno mi avesse suggerito la linea di difesa svalutando così le mie ragioni.
Ricordo ancora l’urlo che il Giudice mi riservò, ottenendo il mio plauso per la sua altrettanta potenza vocale, molto simile alla mia.
Lo
SCIARAAAPPPP!!! (shut-up) che mi gridò rimbomba ancora nella mia testa.
Domenico mi disse di sedermi, cosa che feci immediatamente, dopo di chè mi sorbii la ramanzina del Giudice sul fatto che non dovevo parlare in inglese ma solo in italiano e solo se sollecitato. Mi stetti buono ed anche il Giudice si acquietò.
Nonostante tutto, nonostante avessi fatto incazzare il Giudice, ero convinto, e lo sono ancora tuttora, che avevo vinto il match, avevo rovesciato metaforicamente il tavolo e se il Giudice fosse stato onesto, avrebbe riconosciuto la mia buona fede.
Il processo durò una mezzora, forse 40 minuti. Ritornai in cella.
Domenico doveva andare in aeroporto e mi salutò.
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